Andreoni

Platform_02 \ Workshop 2019



 

 

Conversazione con Luca Andreoni

di Francesca Fabiani

Si è conclusa la seconda edizione del Workshop ARGINI, condotto quest’anno da Luca Andreoni, che si è svolta nel mese di ottobre 2019. Uno degli aspetti interessanti del coinvolgere di volta in volta autori diversi sta nella loro capacità di impostare discorsi partendo da nuove prospettive, che fanno emergere aspetti inattesi tanto nella rilettura delle immagini storiche quanto nell’approccio fotografico vero e proprio.

Il format di ARGINI prevede vari momenti: una prima parte di studio nella Fototeca dell’ICCD, una parte laboratoriale sul campo (in questo caso sul Tevere) e una sessione di revisione conclusiva presso la sede romana di Officine Fotografiche. Nel corso delle giornate sono stati trattati diversi aspetti che appare interessante condividere in questa sede, facendoceli raccontare dallo stesso Andreoni.



 


 


 


 


 

Francesca Fabiani:   Luca, tu hai sempre affiancato alla ricerca fotografica la didattica o meglio, la divulgazione della “cultura fotografica”: insegni in diverse accademie e università, tieni conferenze, conduci seminari e workshop, scrivi di fotografia. Ragionare sul fotografico, cioè sugli aspetti concettuali che sottendono il processo creativo sembra essere per te una priorità, rispetto all’atto del fotografare.

Luca Andreoni:   La fotografia continua a essere spesso considerata solo una tecnica, più che una disciplina vera e propria, anche in ambienti colti, dunque quando insegno mi pare necessario chiarire e lavorare soprattutto su questo aspetto. Parleremmo mai della pittura o della scultura come di una tecnica? Parleremmo certo anche degli aspetti tecnici, di queste discipline – che sono ovviamente importanti, ma in fondo dopo quanto è successo nel Novecento non più così decisivi. La fotografia ha una storia giovane, ma già solida, che dimostra di reggere il confronto con storie più antiche. E diciamolo: la tecnica ha raggiunto con il digitale una semplicità infantile, rispetto alle epoche precedenti, dunque il punto non è quello. È anche una disciplina molto democratica, multiforme: alta o bassa che sia, s’infila dappertutto come l’acqua e questo complica un po’ le cose, perché si fa fatica a pensarla come una disciplina in realtà complessa, colta, sofisticata perfino quando è (terribile parola) vernacolare. Dunque da docente mi preoccupo molto di provare a chiarire le ragioni evolutive, culturali, e perfino personali che portiamo con noi quando lavoriamo con la fotografia.

FF   Rispetto all’esperienza della scorsa edizione, che ha visto Vittore Fossati coinvolgere gli allievi in un confronto con i materiali fotografici storici in ICCD e poi in un’esperienza di ripresa fotografica sul campo, quest’anno il tuo workshop ha sperimentato un approccio diverso, teso a far emergere l’importanza dell’impostazione teorica, storica e, direi, filosofica della ricerca.

LA   Le catene decisionali che ci portano a produrre delle immagini sono sempre piuttosto complesse, che ce ne rendiamo conto o meno – e io penso che sia sempre meglio sapere cosa si sta facendo. Gran parte del lavoro di produzione di un’immagine avviene prima, a volte anche molto tempo prima del momento della ripresa, dunque io cerco sempre di convincere i miei studenti che quanto più si nutrono alle fonti più varie tanto più le loro immagini saranno ricche. Sono quasi delle banalità, queste, per chi ha già percorso un po’ di strada e dunque l’ha verificato sul campo, ma a volte questo si scontra con l’idea che la fotografia sia qualcosa che succede hic et nunc, nell’immediato – maledetta istantanea, come se non ci fosse una lunghissima linea esperienziale e decisionale che ci ha portato in quel luogo, in quel momento! Aggiungo che io do moltissima importanza alla storia, perché tra le altre cose ci fornisce delle coordinate di movimento e una prospettiva del nostro fare: senza conoscere la storia di quello che stiamo praticando, forse faremmo più fatica a intuirne i possibili futuri. Detto questo, viviamo in un presente nel quale trovo affascinante il modo in cui ad esempio la rete ha reso orizzontale l’organizzazione del sapere, che era sempre stata verticale: per chi ha come riferimento soprattutto la rete (guarda caso, i più giovani, ossia i futuri possibili) gli aspetti che chiamavamo “alti” convivono vicinissimi ai “bassi”. La cultura oggi è sempre più un magnifico coacervo pulsante e un po’ disorganizzato nel quale incontriamo di tutto, con pochissimi filtri. Io invito sempre a sfruttare questo rimescolamento di gerarchie, a tuffarsi in questa orizzontalità per recuperare molto più liberamente di prima quello che ci serve per il nostro percorso. Ovviamente tutto questo ha ricadute forti anche sul fotografare.

FF   Mi è sembrato che non c’era tra le tue preoccupazioni quella di fornire indicazioni tecniche ma piuttosto “istruzioni per pensare”.

LA   Certo, per me la fotografia è soprattutto pensiero che si esprime, non cattura predatoria della cosiddetta realtà. La realtà, lo dico senza timori, non esiste. Esiste quello che noi pensiamo di ciò che abbiamo davanti a noi. E fotografare, lo dico sempre, è proiettare sul mondo quello che noi pensiamo di esso. Tutti i manuali di fotografia fanno vedere come la luce entra nella fotocamera – ma faticano a spiegare come avvenga l’opposto: il nostro pensiero esce, letteralmente, dalla fotocamera e si proietta sul mondo. Diciamolo: questa è una battaglia di retroguardia, che però ci tocca ancora fare! Se parlassimo di dipinti, sarebbe un’affermazione del tutto ovvia, che nell’opera si proietti la volontà dell’autore, no? Con la fotografia, dobbiamo continuamente riaffermarlo. Per questo io sono francamente felice che ormai, con la semplificazione delle manipolazioni digitali ormai alla portata di tutti, ci si fidi sempre meno delle fotografie. E così magari finalmente si sta iniziando a capire che la verità delle immagini non sta nella loro ipotetica capacità di riprodurre la realtà, quanto di interpretarla – da cui segue che il problema che si pone è culturale, e perfino, se vuoi, etico, politico, perché quando usiamo un apparecchio fotografico abbiamo in mano un strumento potentissimo, e dunque abbiamo una grande responsabilità, di cui sarebbe meglio che ci rendessimo conto, perfino quando ci divertiamo a usarlo per finalità leggere.

FF   La prima giornata del workshop è stata dedicata interamente a un (per me imperdibile) excursus storico sulla fotografia di paesaggio. Hai raccontato l’evoluzione del linguaggio e dell’approccio a questo tema attraverso l’illustrazione del lavoro di vari fotografi con un tono così appassionato che non lasciava dubbi su quali fossero i tuoi riferimenti culturali: Eggleston, Shore, Sternfeld, Alec Soth, Misrach, i New Topographics, Gossage, Nicholas Nixon, i Becker, Gursky, Struth, Thomas Ruff, Sugimoto, Morimura, Tillmans, Demand, Fontcuberta, Jeff Wall, Eric Kessels, Joachim Schmid, e molti altri.

LA   Il tema del workshop, il Tevere, mi ha indotto a ricostruire alcune linee di percorso che tra la fine del Novecento e il presente si sono occupate in vario modo delle questioni che riguardano il tema amplissimo che chiamiamo paesaggio. Devo anche dire che allo stesso tempo ho usato queste linee per incrociarle col tema dei cambiamenti che sono avvenuti nel linguaggio fotografico, che nell’ultimo ventennio sono stati potentissimi. Per questo di solito individuo nel lavoro di alcuni autori affermati – su tutti, Thomas Ruff – delle anticipazioni, dei presentimenti, degli indicatori di tendenze che oggi sono esplose con forza e informano il lavoro dei più giovani, il contemporaneo più avanzato del quale in un’altra lezione fornisco un ampio panorama - quasi disturbante perché le ricerche odierne hanno messo davvero in difficoltà tutte le idee tradizionali che abbiamo sulla fotografia. Tengo a dire che non propongo le novità come più importanti della tradizione; non possiamo tuttavia far finta che oggi all’arsenale degli autori (o, se vogliamo chiamarli col loro nome: artisti!) non si siano aggiunte possibilità linguistiche e intersezioni con altri linguaggi che fino a pochi decenni fa erano immaginati da pochi mentre oggi sono quasi la norma. La piccola nicchia nella quale sono presente in vari modi, quella della ricerca in fotografia, è oggi davvero stimolante e ricca, e anche se io non dico mai che non si possa continuare a lavorare classicamente (ci mancherebbe), credo si debba anche fare lo sforzo di guardare dritto in volto quello che succede, perché, permettimi di citare il grande Carlo Emilio Gadda, “L'occhio deve prepararsi aperto, se vuol affisar questa fòlgore nell'attimo di sua verità: se lo chiuderete per paura del difficile, vedrete le vene della vostra palpebra, e soltanto quelle.”

FF   Nel corso della seconda giornata l’ampia selezione di fotografie storiche relative al Tevere che conserviamo qui in ICCD è stata solo parzialmente utilizzata. Hai scelto invece di impostare il discorso sul concetto dello stereotipo, a partire dall’analisi di una serie (impressionante) di fotografie del Tevere, fatte da autori e in epoche diverse, che riproponevano la stessa identica inquadratura: il fiume, il ponte, Castel Sant’Angelo, San Pietro, la barchetta coi pescatori.

LA   Nel primo sopralluogo a Roma nella vostra sede ero stato colpito dal tuo racconto di continui ritrovamenti dello stesso stereotipo che citi nella frase qui sopra, che hai incontrato in mezza Europa, come se la “barchetta sul Tevere” fosse uno dei segni distintivi di Roma stessa. Dunque ho pensato di fare l’artista e di… rubarti l’idea! Esplorando poi le parti online del vostro archivio che riguardano il Tevere mi si è confermata la bella ricchezza visiva che poteva fare da stimolo per proporre ai partecipanti al workshop quello che mi interessava: un’operazione di ricerca che a partire da un aspetto quasi comune, popolare, portasse con grande libertà a essere coniugato in modi anche molto diversi. Cosa che poi è in effetti successa, come dimostrano i lavori prodotti. È una tecnica didattica che utilizzo ormai da tempo: un punto di partenza un po’ divertito e/o quasi impossibile porta pian piano, con un po’ di stimoli e di ricerca, a produrre progetti ricchi, complessi, e anche molto diversi tra loro, visto che spingo molto gli studenti a utilizzare le loro competenze precedenti, non solo fotografiche, che sono le più diverse. Mentre studiavo le vostre immagini, la conferma definitiva che l’idea di lavorare su un tema anche un po’ ironico come la “barchetta sul Tevere” potesse funzionare mi è venuta da una serie di immagini strepitose di Pasolini in costume da bagno, su una barchetta sul Tevere, in compagnia di un Toti Scialoja al contrario ben vestito! Niente potrebbe in immagine corrispondere meglio, e in anticipo, a quanto ho detto più sopra sull’orizzontalità odierna dei saperi, sul cortocircuito relazionale che avviene oggi tra le informazioni, le immagini, la nostra immaginazione...

FF   Le giornate successive, presso Officine Fotografiche le hai dedicate alla verifica dei progetti.

LA   Un workshop presuppone che tutto avvenga a caldo, e dunque dopo i primi due giorni all’ICCD ho chiesto ai partecipanti di passare una notte insonne ( ! ) e di presentare il giorno dopo, presso la sede di Officine Fotografiche, le loro prime idee di progetto, ovviamente anche vaghe. A quel punto, come sempre succede in questi casi, le lezioni sono passate dall’essere frontali (dunque organizzate e monodirezionali) a comportare interazioni con ognuno – mai in modalità isolata, bensì collettiva. La descrizione delle prime idee porta a parlare, discutere, vedere lavori di altri e così via, un modo anch’esso di fare lezione che si basa più sull’improvvisazione (e qui la rete aiuta molto) e su collegamenti improvvisi e imprevisti che su forme molto organizzate. Qui spesso è importante l’atmosfera che si è creata nel gruppo (che in un workshop spesso si è formato il giorno prima!) perché le interazioni sono libere, dunque in un certo modo siamo tutti sullo stesso piano; io ad esempio invito sempre gli studenti a collaborare, ad aiutarsi tra loro, anche, se credono, a formare dei piccoli gruppi di lavoro - si chiamano “collettivi”, lo so! Inoltre quando mi è stata offerta la possibilità di fare questo workshop ho chiesto subito, come sai, che potessimo rivederci dopo un paio di settimane, per dare modo di realizzare le idee elaborate nel dialogo dei primi giorni, dunque un poco di fiato per riflettere l’abbiamo lasciato, ai partecipanti.

FF   Dunque la “passeggiata” sul Tevere con la macchina fotografica non era d’obbligo?

LA   Non ho previsto le classiche uscite sul campo: dopo aver detto loro che per quanto mi riguarda avrebbero potuto fare bei lavori anche senza scattare nessuna fotografia e perfino usando altri linguaggi (cosa che in effetti alcuni di loro hanno poi fatto) non avrebbe avuto molto senso utilizzare così il poco tempo che avevamo. È una scelta un po’ decisa, quella che compio in questi casi, ma a me interessano le loro idee e cerco di aiutarli ad affinarle, più che portare sul campo ad es. mie personali modalità di intervento e di lavoro. Nei workshop (e nell’insegnamento in generale) m’importa agire da docente, più che da autore/artista che propone un suo metodo specifico di lavoro.

FF   Mi sembra che i partecipanti abbiano recepito le tue indicazioni, rispondendo alle tue provocazioni hanno sviluppato progetti ponderati, lontani da approcci di tipo reportagistico o documentario.

LA   Sì, e mi pare di poter dire che la cosa è avvenuta senza forzature, anche perché io avevo invitato anche a lavorare liberamente in modo tradizionale, sul campo, come in effetti in qualche caso è in parte successo. Io più che altro invito sempre a cercare di essere dannatamente intelligenti, e dico chiaramente che non m’interessano la particolare riuscita tecnica o certi virtuosismi: m’interessa capire il pensiero, di un lavoro, e gli strati di senso di cui questo è composto. Poi gli esiti possono essere serissimi o ironici, strampalati o controllatissimi, ognuno si esprime a suo modo: ma tengo molto a discuterne i contenuti, prima delle possibilità formali. Nel nostro tempo le narrazioni tradizionali mantengono una loro validità, che tuttavia è messa sempre più in crisi da quanto sta avvenendo nei linguaggi (basti pensare al concetto di “documentario” oggi, parola sempre più in difficoltà). Io porto loro le istanze di questa crisi (che trovo stimolante e liberatoria) e li invito a sperimentarne alcune possibilità, prendendosi rischi e gettando il cuore oltre l’ostacolo. Per questo nei modi più vari molti dei lavori che ne sono usciti sono un po’ borderline rispetto alla tradizione della fotografia: sono le prime frasi compiute di chi sta sperimentando, divertendosi, una nuova lingua, che forse non userà più ma che qualche traccia potrebbe lasciarla, nel proprio modo di lavorare o almeno nella consapevolezza riguardo a ciò che sta facendo.

FF   Sei soddisfatto dei lavori svolti?

LA   Sono molto soddisfatto del lavoro che hanno svolto i partecipanti al workshop; hanno saputo accogliere con spirito positivo e interessato le istanze che portavo – cosa che poteva anche non succedere, perché come dicevo più sopra possono essere disturbanti rispetto ad abitudini pregresse. Va anche detto che tre del gruppo non sono riusciti ad arrivare in fondo: a me dispiace, ma è qualcosa che metto in conto fin dall’inizio, visto che cerco di portare le persone su territori per loro spesso inesplorati, e di questo avverto tutti nelle fasi iniziali. Devo dire che in questo caso le défaillances non sono avvenute per mancanze o rifiuti bensì per il loro opposto: alcuni dei progetti che non sono arrivati in fondo erano forse troppo ambiziosi per il tempo e le situazioni che ci erano concesse – dunque anch’essi forse meriterebbero una breve descrizione, un po’ come quando descriviamo una fotografia che avremmo voluto fare ma che per le ragioni più diverse non siamo riusciti a fare. Detto questo, ho ricevuto da questo workshop delle belle sorprese: è bello vedere come dopo aver lanciato degli stimoli ad aprirsi mentalmente, a riconsiderare il “fotografico” come qualcosa di molto più ampio di quello che si pensa normalmente, avvengano degli slanci imprevedibili e saltino fuori idee brillanti e, ripeto, sempre molto diverse tra loro, il che per me è un indicatore importante. Considerando che tutto ciò riesce ad avvenire anche in tempi brevissimi… certo, sono soddisfatto e felice di aver incontrato persone disposte a mettersi in gioco. Credo anche, e lo dico senza retorica, che questo sia stato possibile grazie alla collaborazione e alla spinta propulsiva che ci avete dato: due realtà come le vostre, ICCD e Officine Fotografiche, diverse ma ugualmente solide e così tanto disponibili verso questo progetto, hanno secondo me creato un’atmosfera importante, nella quali i partecipanti hanno sentito la responsabilità che avevano senza per questo, come si vede dai risultati, rinunciare a divertirsi. Per finire, proprio questo potremmo dirvi: grazie, ci siamo davvero divertiti!

FF   Grazie a te Luca, per l’entusiamo, l’intelligenza e la passione che hai dedicato al progetto. Un grazie anche a Officine Fotografiche e a tutti i partecipanti per essersi messi in gioco. Per noi dell’istituto il contatto con sguardi e pensieri diversi è sempre stimolante.

 

Una fotografia

Open lecture con Luca Andreoni

ICCD_Via di San Michele 18_ROMA \ 9 ottobre : 17.30

L’attuale proliferazione di immagini sembra costringerci a visioni sempre più frenetiche, ma cosa succede se ne osserviamo una sola per lungo tempo? A cosa può portare un’osservazione prolungata? A quali percorsi mentali?
Ogni immagine ha una superficie – sulla quale spesso ci soffermiamo solo brevemente – e una meno evidente ma più significativa “profondità” che – se interrogata – può generare molteplici percorsi di senso.
Nel suo intervento, Luca Andreoni ci accompagnerà in un affascinante viaggio nel tempo e nello spazio, proprio a partire dall’indagine su una sola fotografia.

Ingresso libero fino ad esaurimento posti.
Gradita la prenotazione inviando email a
ic-cd.fotografiacontemporanea@beniculturali.it


 


 

 

Luca Andreoni Workshop

10-12 ottobre e 26-27 ottobre

ICCD_Via di San Michele 18 + Officine Fotografiche_Via Libetta 1 \ ROMA

Il codice genetico della fotografia è cambiato in profondità e produce forme espressive sempre più fluide - soprattutto negli ambienti sperimentali legati all’arte contemporanea - che rivelano la natura ambigua e trasversale della fotografia.
Nelle lezioni si approfondiranno le ragioni di questa evoluzione, anche attraverso l’osservazione del lavoro degli artisti, dai precursori fondamentali ai più giovani, nonché attraverso l’esame del ricco archivio fotografico storico dell’ICCD.
Nella sessione laboratoriale (che richiede spirito curioso e voglia di mettersi in discussione) i partecipanti saranno invitati ad attivare pratiche sperimentali intorno a un tema stabilito, in piena libertà tecnica (dalla fotografia tradizionale alle manipolazioni più spinte, fino alle pratiche di appropriazione dagli archivi), che potranno infine essere restituite in forme espositive non convenzionali.

Per informazioni sulla partecipazione al workshop contatta Officine Fotografiche Roma al sito
Officine Fotografiche



Argini è un progetto a cura di

Paola Cannavò  Agenda Tevere Onlus_ Consiglio Direttivo, Responsabile coordinamento progetti

Alessandro Coco  ICCD, Progetti di Fotografia Contemporanea

Francesca Fabiani  ICCD, Responsabile Progetti di Fotografia Contemporanea

Giuseppe Fanizza  Officine Fotografiche Roma, Coordinatore del progetto

Marco Rapaccini  Officine Fotografiche Roma, Direttore didattico