Fossati

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“Fuorviante” e rappresentazione del paesaggio

Conversazione di Francesca Fabiani con Vittore Fossati

Per la prima giornata del workshop ARGINI (giugno 2019) è stata organizzata una visita alla Fototeca dell’ICCD dove, guidati dallo sguardo e dal pensiero di Vittore Fossati, i partecipanti hanno potuto esplorare la raccolta di fotografie ottocentesche relative al Tevere. L’intervista che segue riporta alcuni temi emersi nel corso della visita.



 


 


 


 


 

Francesca Fabiani:   Caro Vittore, vorrei riordinare alcune tue considerazioni emerse durante la visita alle collezioni fotografiche dell’ ICCD. Comincerei proprio dalla tua prima affermazione, che porta con sé tutta una serie di riflessioni sul fare e sul guardare la fotografia. “La storia della fotografia è anche la storia delle sue intenzioni”, hai detto. Puoi spiegarci meglio cosa intendi?

Vittore Fossati:   Quando ci si trova davanti a una fotografia è importante ragionare sull’intenzione che l’ha generata. I fotografi dell’Ottocento conoscevano i destinatari del proprio lavoro: il turista che voleva il ricordo di un luogo visitato, i committenti di un’infrastruttura o di un’opera architettonica che ne richiedevano la documentazione, i partecipanti di un evento importante che volevano “ben figurare” nella foto che li ritraeva, e così via. Nelle fotografie dell’Ottocento che stiamo vedendo le intenzioni dei fotografi sono evidenti: traspare la volontà di dare compostezza alla scena ritratta scegliendo con cura il punto di ripresa più adatto, cercando di ottenere un equilibrio compositivo il più possibile aderente ai tradizionali canoni assimilati dalla pittura di vedute. Le persone stanno in posa e tutto viene preparato per celebrare – e senza ironia sulle “sorti magnifiche e progressive” - l’affaccio sulle soglie della modernità. La rappresentazione del Progresso è il tema di gran parte di queste fotografie, che in effetti servivano per documentare la costruzione di grandi opere, le inaugurazioni di linee ferroviarie, le fabbriche o le fiere campionarie. O, come in questo caso, la costruzione degli argini del Tevere verso il 1870.

FF  Cioè, è come se in queste immagini la composizione formale fosse aderente all’intenzione, come se forma e contenuto condividessero lo stesso anelito di ordine e compostezza.

VF   La fotografia è un atto culturale, esprime sempre un’intenzione estetica, etica, politica. A quei tempi l’ordine, l’ornamento, l’abbellimento erano principi etici, non solo estetici. Basti pensare alla dignità, al decoro, che veniva dato anche agli edifici destinati al lavoro come opifici, centrali elettriche, villaggi operai, ecc. La “regola d’arte”, l’utilità sociale del manufatto e il suo ornamento, formava il concetto di decoro urbano che ispirava l’opera di architetti e artisti ma anche quella dei più modesti artigiani, categoria cui appartenevano i fotografi.

FF   Quindi intendi dire che il modello culturale entro cui si colloca l’agire del fotografo interferisce nella lettura dei luoghi.

VF   Emerge la volontà, in generale, di magnificare paesaggi, manufatti e il lavoro degli uomini attraverso una sorta di allestimento scenico. Una finzione, quasi da “tableau vivant”, cui si aderiva volentieri. Ho in mente, ad esempio, una fotografia di Achille Mauri, che riprende i soccorritori fra le macerie del terremoto di Casamicciola: tutti in posa, distribuiti nella scena come le statuine di un presepe.

FF   C’è da dire che i modelli iconografici di fine ‘800 in fotografia erano altri rispetto ad oggi.

VF   I fotografi dell’800 avevano dei riferimenti iconografici non ascrivibili al mondo della fotografia, ma a quello dell’arte. La fotografia di quegli anni si confrontava con la pittura, che tendeva a rappresentare le cose non proprio come erano, ma come si voleva che fossero. Ma nonostante l’attenzione con cui i fotografi riportavano quei canoni nelle loro immagini queste suscitavano ugualmente meraviglia e sconcerto, perché rappresentavano una novità rispetto all’esperienza del guardare dipinti o stampe. Erano immagini scaturite da una macchina che finiva per mostrare – e con molta precisione - sia quello che interessava al fotografo, i suoi originali intenti, ma anche quello che finiva nell’inquadratura a dispetto dei suoi desideri. Può succedere che a volte sia interessante quello che accade ai bordi piuttosto che al centro di alcune di queste fotografie. Siamo attratti da ciò che è sfuggito al controllo del fotografo. Per questi dettagli alcune di queste fotografie ci sembrano oggi - involontariamente - “moderne”.

FF   La fotografia contemporanea ha poi in parte mutuato questi modelli aggiungendone però di nuovi.

VF   La fotografia contemporanea di architettura e paesaggio ha continuato ad adottare criteri di impaginazione visiva dedotti dalla tradizione. Che so, ad esempio il “pendant”, una cosa di qui e una di là rispetto ad un’altra che sta al centro. Bilanciamenti di masse o “repussoir”, come li chiamava Corot, (anche se cambiano gli elementi compositivi: al posto di un albero c’è un traliccio, al posto di un roccione un’automobile). Poi è emersa anche una nuova attenzione all’elemento del “fuorviante”: e cioè, ad un primo un livello di corretta descrizione di quello che si vuole mostrare (Walker Evans diceva “adotto lo stile documentario”), se ne sovrappone un altro, costituito da una sorta di smagliatura nella maglia stretta e un po’ noiosa della semplice constatazione e questa lascia intravedere qualcosa, che attiene all’indicibile, e che connota lo specifico dell’arte visiva e della fotografia contemporanea in particolare. Questi due livelli, la valenza “documentaria” e quello in cui accade il “qualcos’altro”, che apre a nuove osservazioni e a nuovi pensieri, Luigi Ghirri li sintetizzava con il gioco di parole “Rilevazione/Rivelazione”.

FF   Si può dire che questa ricerca del “fuorviante” corrisponde alla volontà di suggerire un cambiamento, di discostarsi da una visione consolidata per rivalutare, astrarre o semplicemente considerare la realtà da nuovi punti di vista?

VF   Si. Parlando di queste cose con Guido Guidi un giorno mi ha detto “a me, a noi, interessa il fuorviante”. Può darsi che sia il risultato di un eccesso di cultura visiva. Ma anche la fotografia, a volte, è un eccesso di cultura, come la poesia.

FF   Al discorso delle intenzioni si lega quello del destinatario (o dell’assenza dello stesso). Facevi menzione del fatto che oggi appare più difficile individuare i destinatari della fotografia.

VF   La fotografia documentaria ha smesso di agire nel sociale da un bel po’ di tempo, ammesso che l’abbia mai fatto davvero con qualche risultato. Anche quando i fotografi vengono chiamati dalle istituzioni a realizzare delle “indagini sul territorio”, non si sa bene queste a chi siano rivolte o a chi possano servire. Non ho mai sentito di architetti o urbanisti che abbiano modificato anche un solo tratto dei loro progetti sulla base del contributo offerto alla conoscenza dei luoghi dalle molte campagne di “lettura del territorio” che ci sono state anche nel nostro Paese. Quindi, in molti casi, dismessa l’idea dell’utilità sociale della componente documentaria della fotografia, si torna ad essere dei flauneur, senza nascondersi la gratuità delle nostre osservazioni. Ma bisogna essere degli osservatori attentamente svagati: “sentire” il posto, sentire i sassi sotto le suole, l’acqua che scorre, osservare la venatura di un sasso, la corteccia di un albero. O magari anche uno sputacchio sul muro, come ogni tanto mi ripete Guido Guidi iniziando a dirmi: “sai cosa diceva Piero di Cosimo?...”.
Poi, per dirla col titolo di una mostra curata da Paolo Costantini, può far bene praticare “l’insistenza dello sguardo”, un esercizio utile per acquisire e mantenere il sospetto che ci possa essere qualcosa di interessante da fare, da vedere, anche in un posto qualunque, magari sulla strada di casa, senza vagheggiare sempre un chimerico “altrove”.

FF   E in questo vagabondare dunque non è previsto un progetto a priori?

VF   Un progetto può servire per costruire un percorso, una successione di foto, capace di avvicinarsi a una parvenza di senso. Il mio progetto per i giorni a venire sarà invece quello di non volere cavare a forza nessun ragno dal buco.